Smart working
Lo stiamo facendo nel modo sbagliato
Nel film di Carlo Verdone “Viaggi di nozze” c’è un personaggio esilarante, il dottor Raniero Cotti Borroni, medico pedante che, nelle situazioni più improbabili (sull’altare, sulla tomba della prima moglie, mentre fa l’amore con Fosca) risponde con solerzia al cellulare: “Pronto?… no, non mi disturba affatto, mi dica!”.
Quest’estate mi è capitato di incontrare diverse persone che sembravano il dottor Cotti Borroni, pur non essendo medici.
Donne e uomini schiavi dei loro cellulari, rispondevano a chiamate, venivano intrappolati in riunioni da remoto, nei momenti più strampalati, a qualunque ora del giorno, in qualunque giorno della settimana.
In cima a una vetta o in riva al mare, al parco giochi mentre il figlio si scapicolla per attirare l’attenzione, l’immagine è più o meno la stessa: persone che stanno lavorando anche quando non dovrebbero.
Al di là dell’aspetto comico di certe situazioni, penso sia importante soffermarsi sulle conseguenze negative di questa modalità lavorativa.
La pandemia e il lockdown, la tragica riduzione di lavoro, il desiderio di tornare alla normalità e il supporto della tecnologia hanno creato il terreno fertile per un fenomeno che ci sta sfuggendo di mano: il lavoro senza regole e senza limiti.
L’essere umano si orienta nello spazio e nel tempo; senza coordinate, senza pause e ritmi, entra in un turbinio che ha conseguenze psicofisiche gravi. Aumentano i sintomi di malessere e stress come insonnia, ansia e irritabilità, dovuti non solo alle preoccupazioni per l’emergenza economica in atto, ma anche all’impossibilità di porre una distinzione tra vita privata e vita lavorativa. Un’invasione massiccia del lavoro nei momenti in cui non dovrebbe essere il protagonista, con un’inevitabile rinuncia alla libertà.
Fino a qualche mese prima della pandemia, la possibilità di lavorare in smart working sembrava un obiettivo allettante. Ora, dopo l’esperienza di questi mesi, il sogno di molte persone è di tornare in ufficio e di gettarsi alle spalle l’incubo dello smart working. Perché? Sicuramente perché quello che abbiamo fatto da marzo a oggi non può essere definito smart working. Per essere tale infatti, deve comportare un miglioramento del lavoro, uno snellimento delle procedure, risparmio di tempo e maggior facilità nel conciliare vita privata e vita lavorativa.
Durante la situazione di eccezionalità dovuta al COVID-19, si è cercato di continuare a lavorare in una condizione di emergenza e con modalità del tutto nuove per molti. Gli errori sono dunque del tutto leciti. Il dubbio riguarda il futuro: saremo in grado di recuperare ritmi e modalità consone? Sapremo lavorare davvero in modo “smart” oppure, ormai, siamo fregati dalle cattive abitudini?
Se non ci fermiamo a riflettere su questi aspetti rischiamo di finire come la povera Fosca del film di Verdone che nemmeno nella bara può riposare in pace perché il cellulare del marito continua a squillare.
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